50) Lc 10, 17-24 – 14/04/21
- Il Testo
17Tornarono i settanta[due] con gioia dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Disse loro: «Vedevo Satana come folgore cadente dal cielo. 19Ecco ho dato a voi l’autorità di camminare sopra serpenti e scorpioni, e su ogni potenza del nemico, e niente vi potrà nuocere. 20Più di questo [però], non gioite perché gli spiriti si sottomettono a voi, gioite perché i vostri nomi sono stati scritti nei cieli». 21Nella stessa ora gioì [nello] Spirito Santo e disse: «Ti confesso, Padre, signore del cielo e della terra, poiché hai nascosto queste cose ai sapienti e intelligenti e le hai svelate ai piccoli. Si, o Padre, poiché così avvenne [il] compiacimento davanti a te. 22Tutte le cose sono state date a me dal Padre mio, e nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre, e chi è il Padre e non il Figlio e colui al quale il Figlio lo volesse svelare. 23E voltatosi verso i discepoli in disparte disse: «Beati gli occhi che vedono quello che vedete. 24Vi dico infatti che molti profeti e re vollero vedere ciò che voi vedete e non [lo] videro, e ascoltare ciò che ascoltare e non [lo] ascoltarono».
- Il messaggio
Il tema unificante di questa riflessione è quello della gioia che ha diversi livelli, certamente tutti legittimi, ma non tutti equivalenti.
17Tornarono i settanta[due] con gioia dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome». Questa gioia deriva dall’autorità che i settantadue hanno ricevuto da Gesù di vincere i demoni che deriva da una signoria, da una superiorità. Un primo livello è questo: il motivo della contentezza deriva dalla possibilità di vincere laddove fino a quel momento ha vinto sempre il male. Gesù ha incontrato vari casi di indemoniati che nessuno è mai riuscito a liberare. Essi sono schiavi. San Paolo nella Lettera ai Romani (7, 18) afferma: «c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio». Si tratta della legge del peccato, che dà schiavitù, i settantadue fanno esperienza di un recupero, un rientrare in possesso della propria vita.
18Disse loro: «Vedevo Satana come folgore cadente dal cielo. E’ un modo per esprimere la sconfitta di Satana, Gesù vedeva effettivamente quello che loro dicevano: Satana cadeva dal cielo perdendo potere ed autorità. 19Ecco ho dato a voi l’autorità di camminare sopra serpenti e scorpioni, e su ogni potenza del nemico, e niente vi potrà nuocere. 20Più di questo [però], non gioite perché gli spiriti si sottomettono a voi, gioite perché i vostri nomi sono stati scritti nei cieli». Gesù spiega di aver dato loro l’autorità di camminare sopra serpenti, scorpioni, su ogni potenza del nemico, niente può far loro del male. L’autorità di Gesù è la forza che deriva direttamente dalla Sua persona, legata molto alla Sua Parola ed alla Sua dimensione di vita. Il termine «gioite» è ripetuto più volte, e si tratta della chiave di lettura del brano: Gesù esprime il vero motivo per il quale ha concesso ai settantadue l’autorità. Gesù dice che l’autorità concessa non deve renderli orgogliosi per la loro vittoria sui demoni ma per il fatto che i loro nomi sono scritti nei cieli. Questo è un modo per dire che il libro della vita, il libro del cielo riguardano la salvezza, il rapporto con Dio. I nomi scritti nei cieli esprimono una relazione con Dio che si è riallacciata perché il peccato l’ha distrutta. A tal proposito Genesi 3 ci racconta che colui il quale ha voluto rovinare la relazione tra Dio e l’uomo è il demonio. Dunque Gesù esorta a non soffermarsi sul fatto che Egli fa vincere loro la tentazione ed il nemico, perché questo è strumentale al fatto che si ritorni ad avere un rapporto con Dio, altrimenti l’obiettivo della gioia di ciascuno sarebbe la battaglia. In effetti si lotta per raggiungere un obiettivo, non per la battaglia. Non si lotta per sconfiggere un nemico, ma per conquistare un qualcosa che aiuti, la libertà ad esempio. Anche oggi le nostre battaglie sono funzionali ad una conquista, la conquista è il rapporto con Dio mentre l’ostacolo è il nemico che si frappone. Quando noi diciamo che Gesù viene a salvare l’uomo, il Suo obiettivo è dare la vita per salvarci. Per salvare la relazione.
21Nella stessa ora gioì [nello] Spirito Santo e disse: «Ti confesso, Padre, signore del cielo e della terra, poiché hai nascosto queste cose ai sapienti e intelligenti e le hai svelate ai piccoli. Si, o Padre, poiché così avvenne [il] compiacimento davanti a te. 22Tutte le cose sono state date a me dal Padre mio, e nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre, e chi è il Padre e non il Figlio e colui al quale il Figlio lo volesse svelare. Nello stesso momento in cui Gesù esorta i discepoli alla gioia, c’è un’altra gioia, non quella imperfetta dei settantadue e neanche quella che Gesù indica, ma la Sua gioia. Gesù esulta nello Spirito, gioisce. Il verbo «ti confesso» (exomologhéo) significa «ti riconosco come Dio, Signore del cielo e della terra, pongo la mia fede in te». Il termine «piccoli» (népioi) indica invece coloro che non hanno la facoltà di parlare, gli infanti (coloro che sono incapaci di dire). La contrapposizione diventa interessante: Gesù contrappone il sapiente a chi non sa parlare. L’intelligenza possiede la parola, la facoltà di padroneggiarla, il possesso della sapienza e conoscenza, somiglia molto alla gioia dei settantadue che hanno l’autorità. Sembra quasi che questa sapienza e autorità sulla parola e sulla conoscenza umana sia molto simile all’autorità che i settantadue sperimentano rispetto alla forza dei demoni. Ma questo rende il rapporto con Dio privo di quella gioia di cui Gesù parla. Gesù ci dice che se veramente vogliamo avere una relazione profonda con Dio dobbiamo porci nei Suoi confronti come una persona che non sa parlare e che non conosce il linguaggio, un infante appunto. Gesù si pone in questo modo nei confronti del Padre, afferma di essere contento perché Dio gli fa fare esperienza che la Sua gioia viene concessa a chi si relaziona nei Suoi confronti come un bambino, come uno che riconosce che non sa parlare, come uno che non ha pretesa. Gesù è la perfetta incarnazione di questo modello, riconosce di aver ricevuto tutto. Immaginiamo quale livello di relazione deve avere Gesù con Dio perché non soltanto gli ha dato questa gioia ma Gli ha dato tutte le cose e nessuno può conoscerle se non il Padre e coloro ai quali Gesù le vuole rivelare. Chi vuole accedere al rapporto con Dio deve passare per Gesù e per il Suo modo di rapportarsi con Dio. Quando Gesù parla con i settantadue e spiega che la loro gioia va corretta, li sta invitando a fare come Lui (cfr. Mt 11, 28-29: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime».
23E voltatosi verso i discepoli in disparte disse: «Beati gli occhi che vedono quello che vedete. 24Vi dico infatti che molti profeti e re vollero vedere ciò che voi vedete e non [lo] videro, e ascoltare ciò che ascoltare e non [lo] ascoltarono». Siamo all’ultimo livello della gioia: la gioia di Gesù diventa poi la gioia dei discepoli. Il termine «beato» indica la felicità. Gesù definisce gioiosi e beati i discepoli perché sono stati privilegiati più di profeti e re (le figure più alte in ordine umano e divino nel rapporto con Dio e gli uomini, il livello massimo) nel vedere e ascoltare. La gioia è stata concessa ai discepoli per il fatto di stare con Gesù, l’unico modo per raggiungere la beatitudine e la gioia di cui Gesù parla è stare con Gesù.
Ciò che emerge da questo brano è il modo di Gesù di spiegare come vivere la felicità, la gioia piena che non deriva dalla sapienza umana e neanche dall’avere doni spirituali particolarmente alti. La nostra gioia deriva dal fatto di riuscire ad avere un rapporto con Dio che è come il rapporto di un bambino incapace di parlare con suo padre, in una fase di grande dipendenza dal genitore. Non è un tentativo di sminuire doni ricevuti dal Signore, è il modo in cui si vive questo dono che è importante. È un’esortazione a non fermarsi allo strumento, al mezzo (scacciare i demoni è un mezzo e serve per tornare a Dio), bisogna gioire perché Gesù ci permette di tornare a Dio. Altrimenti diventa (e di fatto questo è il grande rischio), uno specchio pericoloso. La più grande tentazione che noi possiamo avere è quella dello specchio (la superbia): la superbia che si innesta nelle opere buone è un qualcosa che ci fa credere di essere superiore agli altri, è una buona azione che non ha come fine la buona azione ma noi stessi. La superbia è uno specchio che noi abbiamo davanti e che fa in modo che le nostre azioni mi si riflettano verso di noi perché noi stiamo meglio. Dovremmo invece compiere le azioni buone le azioni per il bene della persona, per guardare la persona, per andare a Dio. Tutte le azioni che diventano autoreferenziali non sono più amore per l’altro o amore di Dio, sono amore per noi stessi. Questo accade quando lo strumento diventa fine a se stesso. Possiamo ricordare anche Luca 9, 49-50, in cui i discepoli dicono a Gesù di aver incontrato quel tale che scaccia i demoni nel nome di Gesù ma gliel’hanno impedito perché non è dei loro e Gesù risponde di non impedirglielo dicendo: «chi non è contro di noi è con noi», e cioè che se l’obiettivo è liberare il mondo e scacciare Satana, la missione la si sta compiendo, facendo la stessa cosa che stanno facendo loro. Possiamo chiederci: l’obiettivo è la missione o riconoscere noi? Se diventiamo i referenti delle nostre azioni, non c’è più la missione che dobbiamo svolgere, il fine diviene la nostra persona, la nostra centralità; questo diventa sbagliato perché impedisce l’accesso ad una gioia più profonda, perché ci si accontenta della gioia di essere bravi: non dobbiamo dimenticare che l’autorità, la sapienza, le dà Gesù, non provengono da noi.
- Le risonanze personali
vv. 17-24: in questo brano compare spesso l’emozione della gioia. Sarà caratteristica del cristiano? La gioia dei settadue discepoli che tornano dopo una missione, la gioia dei loro nomi scritti nei cieli, la gioia di Gesù alimentata dallo Spirito santo. Ed io sono un cristiano gioioso? Gesù mette in guardia i discepoli a non gioire per la potenza e autorità contro i demoni.
Inoltre, Gesù si rivolge al Padre e lo ringrazia per aver nascosto queste cose agli intelligenti e sapienti, ma cosa? La loro relazione? Chi conosce il Padre conosce il Figlio e chi conosce il Figlio conosce colui che l’ha mandato. Da questo brano quindi colgo l’importanza di costruire una relazione profonda con Gesù e con il Padre.
vv. 17-24: Questo brano è risultato molto difficile e l’aspetto che subito colpisce è sicuramente la gioia. Innanzitutto la gioia che i settantadue provano tornando da Gesù dopo l’esperienza di annuncio del Regno. Una gioia anche inaspettata viste le premesse con cui Gesù li aveva inviati, come agnelli in mezzo ai lupi. Una gioia che Gesù rivela essere molto più grande. Come in altri passi, la dimensione che il Signore dona sempre più che quello noi stessi desideriamo per noi è un aspetto molto emozionante e rivela il grande amore del Padre verso i suoi figli; non solo nulla può nuocere, ma si acquisisce la consapevolezza della salvezza. Ho riflettuto sui frutti della sequela di Gesù che donano gioia, ma soprattutto certezza della salvezza ovvero su come la Parola che si realizza non smette di avere la sua efficacia .
Altro aspetto che ho trovato interessante è il legame che sembra esserci tra la gioia dei settantadue e la gioia nello Spirito di Gesù .
Infine nel brano ritroviamo i verbi «ascoltare» e «vedere» che mi hanno fatto pensare a quanto l’ascolto della Parola consenta poi anche di vedere il realizzarsi della stesa nella nostra vita .
vv. 17-24: Nel brano continua il parallelismo con il capitolo 9. Anche qui i settantadue tornano e raccontano, ma c’è stato un successo che dà loro gioia. Nella Sua risposta, Gesù sposta l’asse della loro gioia: non perché siano stati “bravi”, ma perché i loro nomi sono scritti nei cieli. La fonte della gioia è essere figli di Dio, di essere nelle Sue mani, sapere che la nostra storia è nei pensieri del Signore. Tutto il brano sembra parlare proprio di figliolanza, soprattutto quando si parla di «infanti», e questo mi rimanda al mistero dell’Incarnazione. Mi sono chiesta quanto io gioisca davvero perché il mio nome è scritto nei cieli, cioè quanto io senta di essere figlia di Dio. E’ questa la mia gioia? Una gioia che posso sperimentare solo se mi faccio come «un bambino svezzato in seno a mia madre».
- Alcune domande per riflettere
- Quanto la gioia della mia vita dipende dal mio successo e quanto dipende dal guadagno relazionale con Dio e col prossimo?
- Quanto mi relaziono col Padre come bambino/figlio e quanto come sapiente/intelligente?
- Quanto mi sento beato per ascoltare la Parole del Signore?